mercoledì 15 agosto 2007

XV congresso nazionale di Rimini: la relazione di apertura di Guglielmo Epifani

Gentili ospiti, amici invitati, delegate e delegati, care compagne e cari compagni, torniamo a Rimini dopo quattro anni per celebrare assieme il XV congresso nazionale della Cgil. Abbiamo alle spalle mesi e mesi di dibattiti, confronti, discussioni serrate. 55.000 assemblee nei posti di lavoro, nelle leghe e luoghi dei pensionati. Una partecipazione di oltre 1.600.000 persone fra iscritte e iscritti alla Cgil e una presenza al voto quasi altrettanto alta. Abbiamo in questi mesi incontrato tanti giovani per la prima volta, spesso precari nella loro condizione di lavoro e di vita; tanti migranti, quelli più fortunati, a cui un lavoro regolare ha ridato dignità e identità sociale; tante anziane e anziani a cui il tempo non ha attenuato né la passione né la volontà di agire. Questa è la Cgil, il più grande sindacato italiano, e tra i primi in Europa; questo è il suo volto: una comunità di uomini e di donne che liberamente si associano, discutono, agiscono e decidono per dare dignità e diritti alle persone, e dare forza ai valori della solidarietà e della giustizia sociale. Qui, prima che nei numeri – in questa passione e in questi ideali – risiede la vera forza della Cgil. Una organizzazione serena, affidabile, ferma nei suoi principi, aperta al confronto e al dialogo con tutti.Noi, riempimmo il Circo Massimo in una straordinaria giornata di primavera. Il 23 marzo del 2002 rappresenta - anche simbolicamente e per le cose dette da Sergio Cofferati in quella piazza – il momento politico più alto, nella storia del paese, della centralità del lavoro, dei suoi diritti, della sua dignità. Insieme con quei cinque milioni di firme raccolte in pochi mesi in ogni angolo d’Italia. Noi, con tante e tanti altri, soprattutto giovani, abbiamo manifestato per la pace e contro la guerra in Iraq, tappezzato i balconi di bandiere e colori, cambiato la fotografia delle città e quella delle coscienze. Noi, insieme a studenti e famiglie, ci siamo battuti per un’idea laica e universale dell’istruzione pubblica, per affermare il diritto allo studio e un uguale diritto alla formazione. Noi – insieme con Cisl e Uil –in una Piazza del Popolo già pronta per il Natale del 2004 abbiamo organizzato la più grande manifestazione dei lavoratori migranti che l’Italia abbia mai avuto. Noi nei giorni scorsi – infine - siamo stati l’anima a Milano ed a Napoli di uno straordinario atto di amore verso la vita e verso le donne.C’è un legame profondo che tiene assieme la nostra critica alle leggi sul lavoro, sulla scuola e sull’immigrazione. Ognuna di queste leggi, al di là delle singole norme o istituti che ne compongono il testo, riafferma, in forma ideologica, un attacco esplicito ai diritti delle persone e alla dignità di ciascuno. Nelle settimane scorse un delegato del Senegal, intervenendo al proprio congresso ha detto in modo pacato e assai fermo che non ne poteva più di sentirsi un “male necessario”: chiedeva soltanto di essere considerato come un uomo. In un altro congresso, mi ha colpito e vi devo dire anche emozionato ascoltare un altro delegato, sempre di un paese dell’Africa, che si interrogava di fronte a quel congresso su come arrestare il declino dell’Italia. Tutto questo mi ha fatto pensare a quanto miope sia non riconoscere il diritto di cittadinanza, dalla nascita, ai figli di lavoratori migranti che nascono in Italia, sapendo che se le prime generazioni – come è avvenuto anche per noi italiani nel mondo – tendono a tornare nei luoghi di origine, mentre le seconde e ancor più le altre finiscono per restare là dove sono nate e dove da subito sarebbe giusto considerarle uguali nei diritti e nei doveri. Questa uguaglianza avrebbe dovuto affermarla il Trattato costituzionale europeo, risolvendo, una volta per tutte e in modo moderno, la vecchia questione sull’origine del diritto alla cittadinanza. Dove va l’Europa; il Mediterraneo, la “ guerra di civiltà”E’ per tante ragioni come queste che l’Europa oggi vive una situazione di difficoltà ed è soprattutto priva di una prospettiva certa. La crisi del grande disegno dei padri fondatori, lo smarrirsi della cultura politica che ne sosteneva il progetto, gli effetti sociali della situazione economica si riflettono nella realtà dei nostri giorni: un’Europa sospesa tra integrazione più avanzata e ritorni nazionalistici, tra chi apre i mercati e chi li chiude, tra grandi ambizioni e poco peso effettivo, fra logica burocratica e quella legata ai mandati democratici: tra quella più stretta e quella più larga, quella con l’euro e quella con le tante monete nazionali. La difficile trattativa sul bilancio, il futuro oscuro del Trattato costituzionale, l’irrilevanza sul piano internazionale e della politica estera, l‘assenza di coerenza fra obiettivi di Lisbona e mezzi impiegati, l’asimmetria che si registra tra il desiderio di acquisire aziende altrove e di non essere oggetto di “scalate” in patria, ne sono le conseguenze inevitabili.Per tutti coloro che vedono l’Europa come uno spazio per il libero mercato e per il libero commercio tutto questo può – anche se in realtà sempre meno - non rappresentare un problema: se si consolida il metodo intergovernativo e si semplificano procedure e normative di riferimento. Per coloro che – e noi, sindacato italiano ed europeo siamo fra questi – invece credono che l’Europa debba essere una vera costruzione politica e istituzionale, un mercato regolato con norme condivise, istituzioni comuni e piena reciprocità, un processo di partecipazione e democrazia, un modello sociale, un’idea di responsabilità fondata sui diritti delle persone, uno spazio comune per tanti valori e tante idealità, a partire da quelle già presenti nella sua storia bimillenaria, un’Europa come una casa dove tutti possano sentirsi cittadini, e non solo produttori e consumatori; bisogna invece domandarsi cosa si può e si deve fare per superare una inerzia che fatalmente ci porterebbe indietro. La Cgil – lo dico con forza e convinzione - non è mai stata nella sua storia nazionalista né protezionista, né ha mai creduto al mito del mercato che non fosse regolato da regole e istituzioni. Per questo oggi, di fronte alle scelte del governo francese non abbiamo bisogno – come molti liberisti pentiti – di riscoprire il ruolo della responsabilità pubblica, e chiedere la protezione delle aziende italiane. Continuiamo a pensare che ci voglia un vero e reciproco mercato europeo. E per l’Italia una politica industriale che promuova e faccia crescere le nostre imprese. Rimettere in moto il processo politico istituzionale è interesse dei governi che credono in questa prospettiva e deve esserlo per la Confederazione Europea dei Sindacati. Ci vogliono tante volontà politiche, istituzionali e sociali e tanta passione. Non basterebbe un paese guida che prenda la testa della locomotiva europea, tra un’elezione che finisce ed una che si aspetta; né la pur necessaria scelta di cooperazione rafforzata che è sempre preferibile al non far nulla. Bisogna restituire un consenso, un’anima al progetto europeo tra le persone. Il tempo di riflessione sancito dal Consiglio europeo usiamolo, come sindacato europeo e come sindacati nazionali, per una campagna di mobilitazione per una vera Costituzione europea che contenga i principi ed i valori della prima e seconda parte del Trattato, ed espunga – perché materia estranea al profilo costituzionale – quella terza parte così dissonante dalle altre, rispondendo così ad una parte delle critiche che hanno portato al NO nei referendum in Francia e Olanda. Anche in questo campo il nostro governo ha grandi responsabilità. L’Europa è stata vista solo come causa di mali più che di opportunità; nessuna vera integrazione industriale europea è stata tentata; l’Euro dileggiato, la Commissione giudicata in base a quello che l’Ecofin dice sul nostro bilancio e sul suo crescente disavanzo. E se il ministro Tremonti si ispira a Colbert e al protezionismo, non ha poi i titoli per lamentarsi del paese dove il colbertismo è nato ed ha lasciato segni che arrivano fino ai giorni nostri. Nel Mediterraneo, verso i paesi dell’altra sponda e del Medioriente, l’Italia ha perso quel ruolo di dialogo intelligente che ha svolto per decenni. L’onorevole Calderoli ne è l’ultimo, più clamoroso, e delicato esempio. Per lo sviluppo dei paesi più poveri destiniamo quasi zero, lo 0,1 del Pil: siamo insieme i meno generosi ed i meno accoglienti, pur stando di fronte a noi l’Africa, il continente dimenticato, il più povero fra i due miliardi di esseri umani che vivono con meno di due dollari al giorno. Quando nel 1995 si avviò il processo di Barcellona per definire nel 2010 l’area di libero scambio, l’obiettivo dichiarato era quello di fare del Mediterraneo un mare di pace e prosperità, ponte di dialogo fra culture, metafora di civiltà che si riconoscono e si rispettano. Il “nostro mare” è il teatro di tutte le contraddizioni che vi sono oggi nel mondo: ricchezza e povertà, immigrazione forzata, le tante guerre aperte e quelle che si annunciano, conflitti etnici, un terrorismo alimentato da fondamentalismi religiosi che attecchiscono nell’acqua della miseria e della frustrazione sociale. E tra tutto, il tema più difficile: la reciprocità, il riconoscimento pieno di diritti e libertà, la coesistenza e la convivenza di culture diverse, dentro le nostre società e nel rapporto fra Occidente e Islam. Il Mediterraneo è dunque il banco di prova per la comunità internazionale e l’Europa nel misurarsi con queste sfide. I problemi tendono a diventare giorno dopo giorno più difficili e più concatenati. La vittoria di Hamas suona come sconfitta della politica, per quello che non è stata in grado di costruire nei decenni passati, l’obiettivo di due popoli e due Stati.La situazione irachena dà giorno dopo giorno sempre più ragione a quello che era stato detto e temuto anche prima dalla Cgil: il rischio di guerra civile, l’accentuarsi del fondamentalismo religioso e del terrorismo, la completa destabilizzazione dell’area. La nuova dirigenza dell’Iran arresta i lavoratori che scioperano, nega l’olocausto, può fare salire la tensione ad un punto di non ritorno. Il fondamentalismo di matrice islamica continua ad espandersi sotto la superficie e alimenta la strategia delle guerra fra civiltà, e anche fra religioni. Per la Cgil è ora il tempo per la politica – a partire dall’Europa – di tornare in campo con una strategia che affronti i problemi nel modo giusto: si abbassi la tensione tra israeliani e palestinesi, si concentri qui il duplice sforzo di costringere Hamas a riconoscere Israele, a combattere l’uso del terrorismo e Israele a non tornare indietro dal processo di pace, non isolando, esasperando e umiliando i palestinesi. L’ONU continui la sua pressione sul governo siriano e il controllo sulla situazione libanese; si prema con gli strumenti giusti sull’Iran, gli si faccia sentire il peso della condanna della comunità internazionale, e si trovino le strade per abbassare la tensione e allontanare i rumori di guerra. L’Italia ritiri le sue truppe dall’Iraq. Si cerchino altre soluzioni per accompagnare una definitiva autodeterminazione da parte del popolo e del governo iracheni. Soprattutto dobbiamo tenere fermi i valori in cui crediamo. Se un giornale pubblica una vignetta offensiva nei confronti della religione, la responsabilità ricade sul giornale. In questo caso non c’entrano i governi né tantomeno i popoli. Se un ministro sbaglia, risponde il governo e al governo bisogna chiederne conto, senza incendiare e devastare sedi e ambasciate. Non va tollerata l’uccisione di preti cattolici in Turchia o di fedeli in Nigeria. E naturalmente non va fatto il contrario nel nome di un uguale e reciproco rispetto tra fedi e tra credenti. Sta qui la vera fermezza che ci vuole. Nel difendere questa fede nella democrazia, nei valori di libertà e di responsabilità individuali ovunque, nei diritti contenuti nella Carta delle Nazioni Unite. Dicendo ancora una volta, nella maniera più alta, che il terrorismo deve essere estirpato; che la guerra, oltre a non risolvere i problemi, fa pagare il conto ai più deboli, a chi non ha responsabilità; che la tortura non può essere mai giustificata e tutti i prigionieri vanno trattati secondo le convenzioni internazionali. Il nostro congresso Care compagne, cari compagni, il voto degli iscritti ha dato un consenso quasi generale all’obiettivo di fondo, alle parole d’ordine del nostro Congresso. Una unità di giudizio alimentata da una grande fiducia e da un grande orgoglio di appartenenza. “Riprogettare il paese” per noi vuol dire innanzitutto mettere a disposizione di tutti, forze politiche, schieramenti, istituzioni, associazioni di impresa e di reti sociali la nostra analisi sul paese e le nostre proposte di riforma. I nostri amici e compagni di Cisl e Uil le conoscono e per una parte le condividono, perché sono anche il frutto di un lavoro comune, di una ricerca che ci ha visto impegnati insieme, a livello nazionale e nelle nostre città e regioni. In questi anni dopo la divisione sul Patto per l’Italia, abbiamo per merito di tutti ripreso a tessere un lavoro unitario; quello che ci ha portato alla piattaforma dell’Eur, che ci ha visto insieme negli scioperi generali per chiedere un cambiamento nelle scelte di politica economica e sociale del governo; quella unità che ci ha fatto sottoscrivere oltre 400 accordi territoriali, e che ha consentito di rinnovare tutti i contratti di lavoro nel settore pubblico e in quello privato, e per ultimo quello dei lavoratori metalmeccanici. Un paese in bilico Riprogettare il paese partendo dal lavoro, dai diritti, dai saperi e dalle libertà presuppone ovviamente un giudizio preoccupato e allarmato sullo stato del paese, sulla condizione della maggioranza dei nostri cittadini, sullo stato dell’etica pubblica, sul funzionamento delle sue istituzioni, e in una parola, sul futuro dell’Italia. Non si deve credere che il nostro sia un giudizio mosso da un pregiudizio, ideologico, di parte. Quando fra i primi, alla fine del 2000, avvertimmo il paese sul rischio di un suo declino industriale, in molti alzarono le spalle. Vi furono polemiche e accuse. Come ricordiamo, vi fu chi ci spiegò che in realtà l’Italia era alla vigilia di un nuovo miracolo economico, e qualcuno coniò un neologismo, oggi possiamo dire davvero sfortunato: “turbosviluppo”. In realtà era dal 1996 che l’Italia aveva cominciato a perdere quote industriali nell’export mondiale, e già allora era chiaro che non era solo “colpa” della Cina o dell’euro, dal momento che Francia e Germania non condividevano il nostro stesso destino. Da allora la situazione è andata peggiorando, soprattutto per responsabilità dell’azione e delle scelte del governo. Questa mattina è arrivata la notizia che non avremmo voluto: il nostro Pil è allo zero tondo.Mentre noi siamo in questa situazione, la Germania è tornata ed essere il primo esportatore al mondo di beni industriali; la Francia ha avviato un ambizioso piano di ricerca e innovazione tecnologica; la Gran Bretagna si conferma leader al mondo nel mercato dei capitali finanziari e nell’istruzione; la Spagna ci supera per dinamismo e capacità di fare sistema ed i paesi scandinavi offrono, unici al mondo, un modello dove welfare e innovazione tecnologica, alte tasse e alti investimenti, coesistono e si alimentano positivamente. I cinque anni della legislatura che sta per finire presentano la crescita media più bassa del Pil italiano di tutta la storia delle legislature di questa Repubblica, e il disavanzo della bilancia commerciale nel 2005 richiama come paragone negativo e come dimensione quelli più pesanti degli anni ‘80. L’andamento negativo generale non sta a significare che tutti i settori sono in crisi e colpiti nella stessa misura. Fra il 2000 e il 2005 la produzione dei mobili ha perso l’8,2%, i mezzi di trasporto il 22%, gli apparecchi elettrici e di precisione il 29%, le gomme e la plastica il 10%, le pelli e le calzature il 33%, il tessile e l’abbigliamento il 19%. Mentre le industrie alimentari sono cresciute del 6%, le raffinerie del 9%, la stampa del 5% e la produzione elettrica del 11%. Questo spiega anche perché l’ultimo esame annuale di Mediobanca sulle più grandi società italiane fotografi incrementi di fatturato e di profitti: le nostre aziende più grandi – tranne la Fiat - sono collocate nei settori di maggiore crescita e profittabilità (energia, chimica, telefonia mobile, siderurgia, oltre alla finanza e alle banche): settori in parte protetti dalla concorrenza internazionale.I dati sull’occupazione e quelli sui redditi non danno elementi difformi. Il governo ha tentato in tutti i modi – e a più riprese – di presentare un’immagine del paese dove l’occupazione cresceva e il tasso di disoccupazione diminuiva. Senza porsi la domanda di come fosse possibile questo risultato senza crescita, industriale, produttiva e di reddito. Noi questa domanda ce la siamo posta, e grazie anche all’ufficio studi della Banca d’Italia, l’Ires ha trovato la risposta. La popolazione residente in Italia è passata negli ultimi cinque anni da 56.000.000 a 58.200.000 abitanti. Gli occupati nello stesso periodo sono passati da 21.380.000 a 22.540.000. Questo è dovuto alla regolarizzazione del lavoro degli immigrati, già presenti e già al lavoro, ma privi di identità pubblica e di rilievo statistico. Per questo confronti più omogenei fra il terzo trimestre del 2002 e il terzo trimestre del 2005 portano invece alla riduzione di 177.000 unità lavorative, come viene confermato dal fatto che proprio alla fine del 2005 il tasso di attività del paese si abbassa al di sotto del 62%, per l’effetto anche dello scoraggiamento che porta a cancellare dalle liste di collocamento le persone in cerca di lavoro. Nel Sud, dove il fenomeno di regolarizzazione degli immigrati è stato quasi irrilevante e lo scoraggiamento più forte, nello stesso periodo abbiamo 40.000 persone in meno occupate. E’ il nostro Mezzogiorno, insieme con le aree a più veloce deindustrializzazione del centro Italia, a pagare i prezzi più alti di questa situazione. Tutti gli indici, di occupazione, di reddito, di consumo, di povertà, di abbandono scolastico, confermano che si è arrestata quella primavera, quella stagione di crescita e di ripresa produttiva delle nostre città e regioni. E cominciano a diventare sempre di più, e sempre più costanti nel tempo, i processi di migrazione interna: i tanti giovani diplomati e laureati che partono con la speranza di trovare un lavoro, che non trovano laddove vivono le loro famiglie. Qui è la parte più consistente dell’identità di un paese che si ritrova più diviso e relativamente più povero: quella divisione che riguarda insieme generazioni, reddito, territori, lavoro. Con gli anziani a reddito basso, sono proprio i giovani del Mezzogiorno coloro che più hanno pagato politiche economiche e redistributive sbagliate.Il nostro Presidente del Consiglio, come sappiamo, non condivide questo giudizio. Egli pensa in realtà che il paese sia più avanti di quello che le cifre rappresentino e porta sempre ad esempio il numero dei telefonini posseduti dagli italiani. In più ha detto che “l’Italia in Europa non siede più in panchina”. Qualcuno di noi ha provato a fare una classifica di un eventuale campionato europeo. Aumento della produttività: Italia ultima; crescita della spesa in ricerca: Italia ultima; prodotto interno lordo: ultima; competitività globale: ultima; aiuti alla cooperazione: ultima; esportazioni high tech: terzultima; creatività economica: terzultima; laureati: terzultima; collegamenti ad internet: quartultima. E ancora siamo primi nell’inquinamento, primi nel costo dell’energia, primi per debito pubblico; secondi per la disoccupazione giovanile e quella di lunga durata; di nuovo primi per i rischi di povertà, tra i primi per numero di morti e di incidenti sul lavoro. A Davos un importante esponente del mondo finanziario ha detto che l’Italia avendo perso tutte le opportunità è rimasta importante solo per il cibo e per il calcio. E come sappiamo nella classifica del World Economic Forum siamo al quarantaquattresimo posto dopo tutta l’Europa, il Cile, la Malesia, la Corea del Sud, la Giordania, la Colombia, il Brasile. L’Economist ci fa sapere che nelle previsioni di crescita l’Italia è quintultima tra tutti i paesi.In tutta onestà non penso che questa sia la vera condizione del paese, e che l’Italia stia un po’ meglio di come i numeri la raccontino, ma siamo e continuiamo a restare su un piano inclinato e questi cinque anni sono stati anni persi e hanno aggravato la nostra condizione. Ma non c’è solo questo. Il paese attraversa ancora la sua lunghissima, infinita, transizione istituzionale e ogni provvedimento, in questo senso preso, ha peggiorato la situazione. La revisione costituzionale operata dalla maggioranza parlamentare rappresenta per noi il coronamento di un processo negativo che finisce per svuotare di senso i principi contenuti nella prima parte della Costituzione; rende diseguali i cittadini nel diritto comune all’istruzione, alla salute, alla sicurezza, e altera in maniera non accettabile l’equilibrio da difendere fra prerogative del Parlamento, quelle del capo del governo, e quelle del capo dello Stato. Siamo onorati di aver contribuito – insieme al Presidente Scalfaro – alla raccolta delle firme per chiedere il referendum previsto dalle procedure in materia di revisione costituzionale, e riaffermo qui – in questa sede per noi solenne - di fronte a tutti che la Cgil si impegnerà - come sa fare quando vuole - perché i cittadini respingano il testo della nuova Costituzione. E’ proprio questo andare e tornare, questa assenza di certezze, a generare una permanente confusione istituzionale: confusione e conflitti che questo governo ha accentuato, accentrando decisioni e caricandone i costi e gli oneri su Regioni e autonomie locali; operando su competenze e materie concorrenti, in modo da non tener conto dell’opinione delle istituzioni locali che dopo la revisione del Titolo V compongono insieme allo Stato, la nostra Repubblica. Le Regioni, i Comuni, le Province hanno sempre trovato nella Cgil un interlocutore attento alle loro richieste e alle loro ragioni. Insieme abbiamo provato a modificare indirizzi e scelte di politica economica; insieme abbiamo criticato le leggi di bilancio; in molte città i sindaci hanno sfilato nelle manifestazioni di Cgil, Cisl e Uil. Li abbiamo visti con noi a Roma, Napoli, Bologna, Firenze, Genova, Torino. Quello che ci ha tenuto uniti non è solo il rifiuto comune opposto alla scelta di ridurre trasferimenti per gli investimenti e le spese sociali, ma qualcosa di più. Istituzioni locali e sindacati rappresentano reti di servizi e reti sociali fondamentali per dare sicurezza ai cittadini, ai lavoratori e ai pensionati, per affrontare le aree di bisogno e le condizioni di difficoltà. Spesso rappresentiamo, insieme con le organizzazioni della Chiesa, i luoghi e i percorsi di solidarietà per tanti che si sentono soli e restano abbandonati. La condizione di precarietà attraversa il mondo del lavoro, quello degli anziani e la società italiana. La stabilità del lavoro – che non può essere mai un disvalore – è per molti un traguardo difficile. Le crisi aziendali ricorrenti cancellano occupazione e identità sociali; nei settori del pubblico impiego, della scuola, della ricerca, dell’Università aumentano le sacche del lavoro precario e di quello a termine, e la combinazione fra riduzione degli organici e tagli agli investimenti cancella servizi e ne abbassa la qualità. La stessa mobilità sociale, quella verticale, è oggi sostanzialmente ferma. E questo non genera solo una fortissima e ulteriore discriminazione – di cui non si parla - verso le donne, le più colpite da questo. Ma una cristallizzazione delle gerarchie sociali negli averi e in quelle dei saperi. Disegna un progetto di società dove avere patrimoni conta più che avere talento e capacità, fare i soldi attraverso i soldi più che farli con gli investimenti e il capitale di rischio; essere furbi o furbetti più che essere onesti e trasparenti; evadere le tasse e ricorrere a tutti i condoni più che pagarle e fare il proprio dovere fiscale. Qui vedo il carattere tutto regressivo, anche culturalmente, e un po’ da ancien regime, (avevo pensato di togliere questo riferimento, ma se penso alle nomine che il Ministro Tremonti vuole fare per la Banca del Sud, altroché ancien regime) della decisione di cancellare il prelievo fiscale sui trasferimenti ereditari dalle grandi ricchezze e dai grandi patrimoni, la logica dei condoni ripetuti anno dopo anno, il non aver voluto uniformare le aliquote fra diverse forme di risparmio e investimento finanziario. Qui vedo il principio dell’affievolimento dell’etica pubblica, dello spirito civico, dell’etica di una responsabilità condivisa. Qui onestamente vedo la causa e l’effetto più duro da rimuovere se si vuole evitare il declino del paese. E’ sulla base di questo che nelle tesi congressuali abbiamo scritto che l’Italia è giunta ad un bivio, e che se non si opera un profondo cambiamento di volontà, indirizzi, scelte, strumenti e priorità il bel paese è destinato - come spesso è capitato nella sua storia bimillenaria – a restare indietro e dividersi.Il lavoro e la via alta allo sviluppo Il bilancio di questi cinque anni ci dice onestamente che il disegno di far ripartire il paese con la riduzione delle tasse e i premi fiscali verso patrimoni e rendite, e con la riduzione dei diritti del lavoro è fallito; come è fallita la scelta di cancellare il dialogo sociale, il confronto con le controparti, il rispetto verso la funzione collettiva della rappresentanza sociale. Più individuo, più patrimoni, più mercato senza regole non sono la soluzione ai problemi del paese, ma forse una delle componenti più profonde della sua crisi. Per questo riprogettare il paese vuol dire ripartire dalla centralità del lavoro e dalla sua qualità, determinare le condizioni per una via alta allo sviluppo, fondata sull’innovazione, la ricerca, la conoscenza, il trasferimento tecnologico. Vuol dire una diversa responsabilità pubblica nell’orientare scelte e missioni produttive; qualificare il welfare anche come fattore di sviluppo; difendere i beni comuni; mettere in collegamento infrastrutture materiali e immateriali; bonificare e difendere per davvero – altro che delega ambientale! - il territorio; avere una politica energetica moderna e capace di ridurre la dipendenza dall’estero. Ci vuole in definitiva un programma ambizioso, capace di spostare investimenti e risorse privati e pubblici dalla rendita agli impieghi produttivi, con una moderna capacità di scelta, di selezione degli obiettivi e di governo di sistema. Con una particolare attenzione rivolta al Mezzogiorno e alla soluzione dei suoi problemi. Ci vuole una politica industriale che la smetta di sostenere investimenti estensivi o di processo, e che si concentri nel qualificare l’innovazione di prodotto sia nei settori tradizionali, che in quelli di più rapido sviluppo. Politiche che difendano identità, tracciabilità e marchi delle nostre produzioni, che aiutino la crescita e l’integrazione fra aziende piccole e medie, e ne sostengano le reti distributive e commerciali in Italia e nel mondo. Ci vogliono infrastrutture efficienti, a partire da quelle del trasporto – compresa l’alta capacità - dove oggi scontiamo i ritardi ed i problemi più acuti. Le ferrovie sono abbandonate a se stesse, senza investimenti, senza rapporti intermodali e con problemi di sicurezza crescenti; il trasporto aereo – a partire dalla situazione dell’Alitalia - è da tempo nella bufera, senza programmazione alcuna del sistema aeroportuale e della concorrenza; le strade e le autostrade non reggono più la crescita del traffico e l’assenza di investimenti. Lo stesso sistema portuale – la sorpresa più positiva della nuova centralità del Mediterraneo nel commercio mondiale – è lasciato a se stesso. Il porto di Gioia Tauro, senza collegamenti di terra e difesa attiva contro i tentativi della malavita organizzata, corre il rischio di non portare nessun vantaggio al paese e al Mezzogiorno. In questi anni nel settore dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni l’esecutivo ha lasciato che le cose andassero per conto proprio – a differenza di quello che stanno facendo altri paesi -, dimostrando qui per intero l’incapacità di operare un governo accettabile dei sistemi complessi. Quando ha provato a farlo – ad esempio nel caso della legge obiettivo – i danni arrecati hanno di gran lunga superato i vantaggi; per non parlare degli accordi con la Russia sull’approvvigionamento del gas naturale. La stessa apertura alla concorrenza nei settori dei servizi a caratteristiche industriali non ha determinato quei vantaggi e quelle opportunità che erano state immaginate. In molti casi si è solo sostituito al monopolio pubblico quello privato. In altri la concorrenza non funziona, o avviene solo al ribasso di standard di qualità, prezzi per il consumatore e universalità del servizio. Nel settore bancario e assicurativo, il paese ha finito per risentire di scelte e politiche inadeguate. Ha sbagliato la Banca d’Italia - e lo dico senza particolari elementi di polemica- in questi anni a favorire un equilibrio del sistema a scapito di una sua più rapida integrazione dimensionale, con la conseguenza di non difendere né l’italianità delle banche, né il loro ruolo nella scena europea e internazionale, né la trasparenza del mercato e la correttezza di molti suoi attori. Anche in campo assicurativo il principio di concorrenza e di qualità ha lasciato troppo spesso il posto a logiche di cartelli che penalizzano i consumatori e fanno salire i costi per le persone. La stessa legge sul risparmio, approvata con irresponsabile ritardo, non risponde ai problemi di funzionamento del nostro mercato finanziario. Non interviene nel campo dei conflitti di interesse nelle attività degli intermediari bancari né con la leva della regolamentazione, né con quella della concorrenza; non affronta il nodo degli assetti proprietari e azionari delle banche italiane, nodo destinato a diventare o il freno o la leva dei percorsi di riaggregazione che si stanno costruendo e che riguardano non soltanto le quattro banche di cui si parla, ma la stessa Mediobanca e Generali, e quindi il cuore del potere finanziario italiano. Per non parlare dei più grandi gruppi industriali, quali Telecom e la Fiat. Gli stessi intrecci fra banche e imprese pongono, infatti, problemi. Se il valore totale delle partecipazioni bancarie delle nostre imprese non finanziarie è rimasto al di sotto dei tetti massimi previsti dalla normativa, sta invece aumentando il peso, anche qualitativo, assunto da molti gruppi bancari nella struttura proprietaria delle nostre imprese. Oggi, almeno sette dei primi dieci gruppi bancari italiani hanno tra i propri azionisti di riferimento uno o più gruppi industriali; e in almeno cinque casi su sette gli azionisti industriali denunciano posizioni di forte indebitamento rispetto al gruppo bancario partecipato. Come è evidente tutto questo è destinato a rendere opachi le scelte e i mercati. Per questo – e lo dico con rispetto e conscio dei problemi – penso che Confindustria e ABI debbano affrontare il problema, oltre all’Osservatorio comune che hanno: studiare nuove regole per una governance più trasparente. E qui sì forse proporsi meno patti incrociati di controllo – quelli di sindacato - dove con poco sei proprietario di tutto e dove così eviti contendibilità e scalate sgradite. Nel turismo il paese deve ripensare a fondo la propria strategia. In pochi anni, un paese come il nostro, pieno di giacimenti culturali e bellezze straordinarie, è riuscito a perdere posizioni e arretrare. Prezzi alti, poca qualità, nessuna politica di sistema e promozione integrata. Il regionalismo qui ha dato il peggio di sé, come se nel mondo di oggi fosse importante promuovere solo una parte del paese, e non tutto, non l’insieme. Ancora peggio è andata per la nostra industria agroalimentare: Parmalat, Cirio, molti dei nostri marchi finiti in mano delle multinazionali; le filiere dello zucchero e del tabacco in difficoltà e difese con i denti; e un paese impreparato alla concorrenza che si aprirà nell’area del Mediterraneo. Quanto alla distribuzione e alla logistica – che non sono irrilevanti per il sistema produttivo moderno – sembra che nessuno se ne interessi, tranne che la cooperazione per una parte. La ricerca, i saperiPer l’insieme di questi motivi, riprogettare il paese è assolutamente fondamentale puntare sullo sviluppo della ricerca, dell’innovazione e della formazione. Qui non c’è solo la responsabilità di questo governo. Da almeno quindici anni gli investimenti in ricerca sono fermi, se non addirittura in calo; gli obiettivi del patto del 1993 non sono stati raggiunti per responsabilità degli attori pubblici e di quelli privati. Il paese resta carente nella ricerca di base e in quella applicata, e solo parzialmente presente nei settori di punta della ricerca del futuro: le biotecnologie, le nanotecnologie, le tecnologie ottiche, le nuove fonti energetiche.Il Presidente Ciampi, che con noi firmò l’accordo del 1993, non perde giustamente occasione per insistere su questo rilievo, e a ragione, perché anche i modelli matematici confermano la stretta relazione esistente fra investimenti in ricerca e crescita del Pil. Quello che noi non facciamo oggi è destinato a pesare nei prossimi dieci anni.Devo anche dire che questo è il punto di maggiore complessità da risolvere, come dimostra il fallimento degli obiettivi di Lisbona in campo europeo.Qui non bastano solo incentivi o maggiori investimenti pubblici. Ci vogliono catalizzatori di progetti, piani integrati fra aziende e università, fra Comuni ed enti di ricerca; vanno cambiate insieme le aziende, le università, i centri di ricerca. Va separato l’investimento a breve, tipico della ricerca applicata, da quello di lungo periodo, proprio della ricerca di base. Va garantita autonomia e libertà al ricercatore. Va data fiducia alla sua responsabilità e maggiore capacità di controllo e di applicazione degli effetti della ricerca. Bisogna premiare i talenti, formarli, evitare che se ne vadano all’estero, avere dei veri e consolidati punti di eccellenza. E difendere quelli che ci sono. La medesima qualità va portata verso il sistema formativo. Cancellare le riforme della Ministra Moratti non vuol dire ritornare al modello precedente, ma riprogettarne uno nuovo, guardando in avanti e assumendo come valori di riferimento quelli fondanti la nostra Carta costituzionale.Noi vogliamo che l’obbligo scolastico sia riportato a 16 anni e che possa arrivare a 18 nell’arco della legislatura, con tutte le implicazioni che questa scelta comporta. Non si tratta di un obiettivo facile, ed è forte l’obiezione che ci viene mossa in nome della condizione di quei ragazzi che abbandonano la scuola o ne sono respinti. Ma senza un segnale forte, un indirizzo esplicito e coerente, il paese avrà sempre un terzo di diplomati in meno degli altri paesi europei e andrà indietro per qualità dell’offerta formativa. Insieme, va ricostruito un forte sistema di formazione professionale, come raccordo fra scuola e lavoro, fra lavoro e lavoro, in grado di fare crescere competenze e forme rinnovate di conoscenza. E vanno triplicati i numeri dei nostri laureati, intervenendo sugli assetti organizzativi dei percorsi universitari, superando modalità che non hanno funzionato e adeguando finanziamenti e principi di valutazione. La scuola, la formazione professionale, l’università, la ricerca costituiscono il cuore della nostra scommessa riformatrice. Qui si vince o si perde il progetto dell’Italia che vogliamo. Il patto fiscale Proprio l’altezza di questa sfida dà forza, senso e centralità alla richiesta che avanziamo di un nuovo patto fiscale. Sotto questo titolo, per noi si definiscono molti obiettivi. Reperire risorse - in una situazione di conti pubblici ritornata difficile per responsabilità del governo e per la prospettiva del rialzo dei tassi – da destinare agli investimenti, all’istruzione, al welfare; ripristinare una giustizia fiscale nel nome del principio che chi più ha, più paga, che non vi debbono essere più condoni, che va combattuta l’evasione; riequilibrare la tassazione fra rendite, patrimoni e redditi da lavoro; restituire il drenaggio fiscale e sostenere anche fiscalmente i redditi da pensione; operare una fiscalizzazione contributiva sui salari più bassi. Un patto fiscale di questa natura diventa anche un nuovo patto di cittadinanza, una rinnovata base di coesione sociale e di etica pubblica. Su questo terreno – se Cisl e Uil fossero d’accordo, come penso – insieme dovremo fare il primo passo: chiedere al governo che uscirà dalle elezioni, se avrà questi obiettivi nei suoi impegni di programma, un confronto in questa direzione, dando la disponibilità a negoziare, e a definire – se ve ne saranno le condizioni – un accordo di legislatura. Per noi questo significa che non vi potranno essere due tempi – prima il risanamento e poi il resto – e che il governo dovrà in questo modo sostenere esplicitamente i redditi da pensione e quelli da lavoro dipendente. Un nuovo patto fiscale sostiene anche un’idea di stato sociale inclusivo, efficiente e di qualità. In questi anni, indipendentemente dal livello della spesa pubblica, il sistema di welfare è stato impoverito e dequalificato; non ha contrastato precarietà e insicurezza; non ha rappresentato leva di sviluppo e di qualità; ha lasciato ai margini l’infanzia e una parte della popolazione anziana, non ha ridotto l’area della precarietà, soprattutto nel Mezzogiorno. Quello per cui ci siamo battuti, insieme con i sindacati dei pensionati e le associazioni del terzo settore, è un welfare improntato ad un’idea di Stato laico, che sappia valorizzare le differenze e rispettare la libertà di ognuno, senza pretesa di definire modelli morali e imporre criteri etici di valutazione e di comportamento. La centralità del ruolo del sistema pubblico va affrontata - anche per questo – non solo nella programmazione e nella definizione di regole e standard qualitativi, ma nella stessa gestione dei servizi, a partire dalla sanità e dall’istruzione. Fa sempre più parte di un welfare inclusivo, accanto alle politiche verso i giovani - oggi esclusi da qualsiasi accesso al sistema di protezione sociale - e quelle per l’invecchiamento attivo degli anziani, il tema della casa, che riguarda sempre di più bisogni ed esigenze diffuse: ancora i giovani, gli anziani, gli immigrati, i lavoratori in mobilità. Qui non ci vogliono illusioni, piani ad effetto, proposte dell’ultima ora per strappare qualche voto, per di più da persone che hanno realmente bisogno. In cinque anni il governo aveva il dovere di fare. Non ha oggi il diritto di promettere, ancora. Non ci ha convinto e non ci convince l’intervento operato dal governo in materia previdenziale. Una operazione ingiusta tra fasce di età, rigida nelle modalità di scelta per innalzare l’età di accesso alla pensione, e che ha lasciato irrisolti i problemi che la riforma Dini non aveva completato. Ci troviamo così, oggi, senza soluzione per i lavoratori e le lavoratrici con lavoro discontinuo e a basso reddito, per la rivalutazione del valore delle pensioni per le quali valgono le proposte avanzate dal nostro sindacato pensionati, e con il posticipato delle misure di sostegno e incentivazione per l’adesione alla previdenza complementare. Il reddito minimo di inserimento è stato cancellato, il fondo per i non – autosufficienti lasciato ai margini del lavoro parlamentare, il fondo sociale delle Regioni dimezzato. E i Comuni chiamati a scegliere se tagliare investimenti – per fare quadrare i bilanci – o ridurre i servizi; con i Comuni più poveri costretti a fare l’una e l’altra scelta. Non parliamo poi degli ammortizzatori sociali, della loro riforma e delle tutele verso il lavoro. Proprio in questi anni di crisi industriali e di trasformazioni produttive, di delocalizzazioni e di riconversione, il paese avrebbe avuto bisogno di strumenti più estesi e intelligenti e di una politica di raccordo fra welfare e mercato del lavoro. Abbiamo invece avuto poche risorse, nessuna riforma e l’assenza di una integrazione di questa natura. Tutto questo ha finito per dividere i lavoratori, le aziende, i settori, i territori. C’è chi ce l’ha fatta ad avere qualche tutela e chi niente, come la miriade di lavori e persone invisibili dell’indotto, delle subforniture, delle piccole e piccolissime aziende. Ancora in questi giorni stiamo aspettando risposte per i lavoratori dell’elettronica, della chimica, del tessile abbigliamento, e per regioni come la Sardegna, l’Abruzzo, la Campania. Per non parlare della Fiat. Oggi non ha proprio senso che si parli di licenziamenti; lo dico con la forza necessaria alla Fiat e al Ministro Maroni.Anche in ragione di questi comportamenti, il mondo del lavoro è stato oggetto di processi di frantumazione e di divisione, indotti da scelte di imprese, da un’idea di competizione basata sulla riduzione di costi e diritti, dal tentativo di contrapporre le diverse forme e tipologie del lavoro, giocando al ribasso fra persone e fra diverse condizioni lavorative. Con la scelta di intervenire sull’articolo 18 dello statuto dei lavoratori, il governo ha fornito, d’accordo con la Confindustria di Parma, il fondamento ideologico e l’attacco che doveva essere risolutivo. Le cose, come sappiamo, hanno preso un’altra piega. La resistenza della Cgil, e dei lavoratori, lo schierarsi della maggioranza dell’opinione pubblica a fianco di quanti si battevano per la dignità dei lavoratori e dei loro diritti hanno arrestato il disegno e ridato forza a una diversa prospettiva riformatrice. Si tratta, oggi, quindi, di andare oltre la legge 30, ribaltandone la filosofia: andranno cancellate tutte le norme che precarizzano il rapporto di lavoro, favoriscono la destrutturazione dell’impresa e indeboliscono la contrattazione collettiva. Bisogna tornare a fare del contratto a tempo indeterminato la normale forma di lavoro, limitando altre forme di contratto all’eccezione e qualificando le forme di ingresso al lavoro con effettivi e qualificati percorsi formativi. Non si dovranno più avere costi diversi e più bassi per le forme di lavoro flessibili; bisognerà controllare e ridurre le esternalizzazioni nei settori pubblici; andranno contrattati piani di stabilizzazione per i precari di lunga durata. Per i lavoratori migranti andrà stabilita l’istituzione di un permesso di soggiorno per ricerca di lavoro, e questo, se gestito correttamente anche con accordi bilaterali con i paesi d’origine, limiterà clandestinità forzata e lavoro nero, e farà venire meno ogni pretesto da cui sono nati i centri di permanenza temporanea. Infine, vanno rimosse le norme, e in particolare l’articolo 14 del decreto legislativo 276 del 2003. L’integrazione nel mondo del lavoro delle persone con disabilità è un segno distintivo della qualità della vita sociale, civile e della cultura di un paese. Integrare nel lavoro i disabili con forme di precarietà nel rapporto di lavoro è una scelta che ci porta fuori dalla ragione e fuori dal rispetto che si deve alle persone. Questo è – nel modo più sintetico possibile – il segno e il senso del nostro progetto per il paese. Una diversa politicaPer tanto tempo ed in ogni occasione istituzionale, queste idee e ragionamenti sono stati proposti al governo in carica, ad ogni Finanziaria, ad ogni incontro.Il governo di centrodestra ha lasciato cadere qualsiasi volontà di dialogo, di confronto, di risposta. Malgrado il lavoro di alcuni componenti del governo, tra i quali il sottosegretario Letta che ci onoriamo di avere qui, oggi, nostro ospite. Verso di noi, verso Cisl e Uil – all’indomani della firma del Patto per l’Italia - e come ho già detto verso il complesso delle autonomie locali e delle Regioni. Gli accordi stipulati con Confindustria e le altre associazioni sul Mezzogiorno, le infrastrutture, la formazione, le politiche fiscali sono rimasti lettera morta. Il governo non ha sentito neanche il dovere e l’educazione di rispondere alla richiesta di incontro, quand’anche per dire NO. Per questo, e per le responsabilità che il governo porta per la situazione del paese, oggi questa proposta viene avanzata innanzitutto al centrosinistra, allo schieramento dell’Unione, alla vigilia delle elezioni legislative. Quasi un anno fa, i dodici segretari confederali indirizzarono una lettera a Romano Prodi esprimendo preoccupazione per la situazione del paese e chiedendo un programma di radicale cambiamento. Qualcuno polemizzò con questa scelta, senza capire che era il modo più trasparente e rispettoso da parte di un sindacato di rivolgersi ad uno schieramento politico, senza confusione di ruoli e di responsabilità. Tanto è vero che nel passato lo facemmo nello stesso modo insieme, come Cgil, Cisl e Uil. Oggi che il programma dell’Unione è stato varato, la Cgil può dire di trovarvi una risposta positiva a quella lettera. Di scoprirvi una valutazione dello stato del paese comune, una volontà di cambiare rapidamente, per non rassegnarsi al declino; una disponibilità ad un rapporto positivo con le organizzazioni sindacali. Non tocca a questa relazione, né al Congresso, dire cosa va bene e cosa manca in questo programma. Ci compete piuttosto ripetere – anche di fronte alle promesse in libertà che si sentono ogni giorno e nelle quali il Presidente Berlusconi è maestro - che il paese ha bisogno di cambiamenti concreti, e che pesa sull’Unione una grande responsabilità, che senza retorica si può definire storica: quella di fare prevalere nel consenso democratico la necessità di questa svolta, e in questo caso di assicurare con serietà e rigore l’opera della ricostruzione. Dal nostro punto di vista, sappiamo che riprogettare il paese non sarà impegno facile, né di breve durata: e questo richiede unità, costanza, determinazione, coraggio. Non una politica dei cento giorni, ma dei tremila. E tanta passione civile, tanta sensibilità sociale verso quelli che stanno peggio e da soli non ce la fanno: e tanta libertà e rispetto per chi rischia, investe, ha talento, ha voglia e capacità di fare. Occorre unire quello che è stato diviso. Ritessere le reti di coesione e solidarietà, dare qualità, efficienza e terzietà alla macchina amministrativa, combattere davvero la criminalità organizzata, che in questi anni ha rialzato la testa. Rispettare la Magistratura, la sua autonomia e la sua indipendenza, le leggi dello Stato; il pluralismo dell’informazione e la cultura; fare un passo indietro nel rapporto fra Istituzioni e interessi economici, rendere più forti e autorevoli le autorità di vigilanza e di controllo, regolamentare per intero i conflitti di interesse. Fare che la politica ritorni ad essere una funzione di servizio verso i cittadini. E ricordarsi che la libertà di tutti è garantita solo in uno Stato pienamente laico. Se questo avverrà, per la Cgil sarà un motivo di grande soddisfazione. Perché vorrà dire che l’impegno, l’abnegazione, la lotta di tanti sarà servita per un nobile e alto progetto di cambiamento civile e morale. Per questo qui voglio esprimere l’affetto e l’ammirazione, a nome di tutto il Congresso, al nostro segretario della Camera del Lavoro di Corleone, Dino Paternostro, minacciato ma non intimidito dalla mafia: ultimo di una serie lunga di atti compiuti contro sedi e persone della Cgil, che non hanno risparmiato, come a Comiso, il coraggio civile delle nostre giovani compagne.Il salario, i contratti Care compagne, cari compagni, non è stato facile per il sindacato in questi anni battersi per difendere il lavoro, il reddito, la condizione dei lavoratori, la situazione degli anziani. Ed è evidente l’esistenza di un grande problema sociale, costituito dalle condizioni di reddito di lavoratori e pensionati. C’è difficoltà, disagio, vero malessere. C’è chi ha ridotto i consumi, chi i risparmi. Dove c’è un reddito solo, le difficoltà aumentano. Dove c’è precarietà e i soldi che entrano non superano 600, 700 euro si tira la cinghia e di brutto. Per non parlare dei pensionati al minimo e che ancora aspettano le promesse che erano state fatte. Di converso qualcuno in questi anni si è arricchito: chi ha potuto fissare - nel commercio e nelle professioni – liberamente i prezzi dei propri servizi; chi ha patrimoni e rendite da far valere; chi evade o elude le tasse. Vi è qui una delle più grandi responsabilità di questo governo: non essersi occupato – come doveva – della condizione dei primi e di essersi preoccupato eccessivamente della condizione degli altri. In assenza di una politica capace di aiutare i redditi da lavoro e di operare un controllo su prezzi, tariffe, costi dei beni e dei servizi pubblici, è toccato alla contrattazione il compito di difendere potere d’acquisto e valore dei salari. Il bilancio di questi anni presenta luci e ombre. Con forza e determinazione, e con un numero alto di mobilitazioni e scioperi, Cgil, Cisl e Uil sono riuscite a completare – sia pure con un ritardo a volte pesante – tutti i rinnovi dei contratti nazionali. Con la firma degli Enti Locali e il rinnovo dei metalmeccanici, il sindacato ha dimostrato anche in condizioni difficili di difendere l’istituto del contratto nazionale. E questo aiuterà i rinnovi aperti: dalla chimica, al petrolio, dall’energia, all’edilizia, ai braccianti, dai tessili ai contratti considerati a torto, minori. Le ombre riguardano la qualità che è mancata in molte occasioni, la stasi degli assetti degli inquadramenti professionali e gli addensamenti in basso che si sono ampliati. Sul terreno del recupero dell’inflazione, qualche contratto è andato oltre, qualche altro è rimasto in linea. I ritardi dei rinnovi nei settori privati hanno ridotto le capienze totali degli aumenti retributivi e laddove i riferimenti hanno preso la strada dell’inflazione attesa, i risultati sono stati migliori. Anche la contrattazione di secondo livello è stata spesso difensiva e l’intervento sulla condizione di lavoro e la quantità delle prestazioni insufficiente. Qui naturalmente hanno pesato le crisi produttive, le riorganizzazioni, le esternalizzazioni, il modesto tasso di crescita e l’ampliarsi della precarietà e la situazione particolare di molti settori, quali i quali il trasporto pubblico locale. Ricomporre il lavoro e i diritti Abbiamo in ogni caso il dovere di non fuggire da un esame attento delle difficoltà, di quelle antiche e di quelle nuove, derivanti dai modelli di organizzazione della produzione di beni e servizi, dalla frantumazione dei luoghi del produrre, dei lavori e del mercato del lavoro. Quando abbiamo per ogni impresa fino a dieci tipologie di lavoro, quando un bene o un servizio è ottenuto attraverso filiere con quattro, cinque o sei contratti di lavoro diversi, anche nel caso di settori delicati, quali la cura o l’assistenza delle persone; quando anche per professioni qualificate – come le infermiere – si torna al caporalato; quando i lavoratori stranieri e le donne vengono per lo più confinati nei lavori più pesanti, o solo in quelli meno retribuiti o precari; quando la distribuzione del tempo di lavoro ci dice che c’è chi lavora cinque giorni in un anno, chi trenta, chi tre mesi, chi sei e poi magari altri tre o altri sei; quando ci sono persone che lavorano quindici, sedici, diciotto ore settimanali, magari divise giornalmente in due o tre aree (come, ma non solo, nel commercio o nelle imprese di pulizia) con una rigidità e pervasività del tempo di lavoro che occupa tutto di sé; quando non ce la facciamo a tenere logicamente assieme il valore di un lavoro semplice– come definito dai contratti – e i lunghissimi tempi dei mesi di apprendistato per raggiungere tale qualifica: allora dobbiamo parlare di noi, di quello che non possiamo scaricare solo su un’altra legge o altre responsabilità. Dobbiamo parlare onestamente dei nostri limiti, di come ne discutiamo, di come lavoriamo con le RSU o i delegati; di come mettiamo a verifica esperienze, risultati, progressi, o sconfitte; di come anche noi torniamo a occuparci bene della condizione concreta del lavoro. E dico: noi tutti, categorie e confederazioni. Anche per questo ci siamo battuti contro la Direttiva Bolkestein, non per fermare un processo di integrazione nel campo dei servizi. Ma per evitare di mettere in concorrenza lavoratori contro lavoratori; norme di un paese contro norme di un altro paese, contratti contro contratti, sapendo che poi sarebbe finita qui la vera partita: scaricando tutto sui più deboli, mentre i forti ne sarebbero stati esclusi. Più integrazione dei mercati è necessaria, ma ci vogliono regole e standard uniformi, e per questo contratti collettivi europei. Non atti di furbizia e di divisione del lavoro.Il Parlamento europeo ha compiuto un passo in avanti: ha eliminato il principio del paese d’origine; ha escluso il diritto del lavoro e riconosciuto il ruolo dei contratti collettivi; ha ribadito l’esclusione delle agenzie interinali, i servizi di interesse generale, e salvaguardato la direttiva sui distacchi dei lavoratori. Altre parti, invece, sono rimaste ambigue e in contraddizione con le modifiche apportate: cosa succede per i rifiuti, per l’acqua, per l’istruzione privata e la formazione professionale, per la sanità privata? Per questo bisognerà insistere per migliorare il testo della Direttiva, anche per ridurre le interpretazioni che potrebbero portare a una lunghissima serie di controversie di carattere giudiziario. Noi condividiamo il giudizio della CES. Spesso abbiamo avuto accenti critici verso la CES, ma in questo caso si è mossa bene: e questo dimostra che se il sindacato europeo sta in campo con forza, i risultati possono arrivare; e che quindi l’Europa ha bisogno di un forte e vero sindacato europeo. Il Congresso di Siviglia nella primavera dell’anno prossimo può e deve per la Cgil rafforzare la dimensione sindacale della CES. Una CES più forte è anche la condizione perché abbia più forza quel processo di unificazione, deciso a livello mondiale. Nell’autunno di quest’anno nascerà un sindacato internazionale più grande e noi speriamo sempre più forte perché di questo abbiamo – giorno dopo giorno – sempre più bisogno.La riforma dei contratti Negli ultimi mesi, da parte di Confindustria è stato più volte posto l’accento sulla esigenza di modificare gli assetti contrattuali e l’impianto del 23 luglio. Alcuni studiosi hanno contestato il ruolo e la funzione del contratto nazionale, oggi fino a prefigurare un salario minimo di legge e una contrattazione basata su differenze di territorio, di genere, di età. Altri propongono di ricorrere al principio delle deroghe aziendali. Anche il presidente del CNEL ha voluto dire la sua, e mentre propone il CNEL come sede di confronto, ha espresso già da subito il suo giudizio critico verso il contratto nazionale. Noi rispettiamo tutte le opinioni e le proposte, soprattutto quando sono in buona fede, e vengono formulate con argomenti e con il rispetto necessario. Non consideriamo né nemico, né avversario (ci mancherebbe) chi ha opinioni diverse dalle nostre. Il dialogo, il confronto, la libertà di giudizio e di critica sono il sale della democrazia. Ma non per questo la Cgil cambia idea. Per noi il contratto nazionale è ancora la forma più moderna ed efficace per regolare norme, diritti e doveri del rapporto di lavoro su tutto il territorio nazionale e per concorrere alla difesa e all’incremento in maniera uniforme del potere di acquisto delle retribuzioni. Senza questo la media delle retribuzioni è destinata inevitabilmente ad abbassarsi. Per noi il sistema di regole contrattuali deve essere unitario per tutti i settori pubblici e privati. Per noi il livello nazionale di contrattazione non può essere messo in alternativa alla qualificazione della contrattazione decentrata, scelta oggi ancora più importante e fondamentale di fronte alle trasformazioni nell’organizzazione del lavoro, nei confini dell’impresa, e nella condizione dei lavoratori. Su questo – va detto lealmente - abbiamo differenze con le posizioni di Confindustria. Non ci convince il documento che Confindustria ci ha inviato, per molte buone ragioni. Il contratto nazionale - che pure viene confermato – è visto in modo troppo parziale e riduttivo. E dove si chiede che sia più forte, lo si fa per superare prerogative e responsabilità – come in materia di orari di lavoro – che sono, per una parte, proprie delle rappresentanze aziendali. In tema dei conflitti di lavoro, Confindustria propone interventi che ne restringono unilateralmente il ricorso, chiede arbitrati obbligatori e sorvola – e fa male- sulle responsabilità che le imprese hanno avuto nel determinarli. Infine, insiste molto su politiche di riduzione del cuneo fiscale e contributivo, e di vantaggi fiscali per il Mezzogiorno. Su questo, il confronto invece potrebbe essere reciprocamente utile, a condizione che si abbia – gli uni e gli altri - il senso di misura tra vantaggi che potrebbero ricadere sulle aziende e quelli che dovrebbero riguardare i lavoratori. Proprio questo mi porta a fare una osservazione di fondo. Con la nuova Confindustria, alla quale abbiamo riconosciuto il diverso atteggiamento verso di noi, abbiamo da subito lavorato insieme su tanti temi e altri indicati: i migranti, la formazione, la fiscalità di vantaggio, il Mezzogiorno, le infrastrutture. Ma tutto o quasi è restato fermo, bloccato dalla questione del modello contrattuale. Non penso che questo sia per tutti il modo migliore per affrontare i temi di comune interesse. Se c’è davvero interesse su questi temi, il confronto e il lavoro devono andare avanti, senza farsi condizionare da quei problemi su cui oggi non c’è ancora accordo. In caso contrario, e lo dico con spirito costruttivo, nella logica del tutto o nulla, ci ritroviamo il nulla e finiamo per dare ragione ai tanti – non tutti in buona fede – che ci chiedono di fare e non solo di criticare e di chiedere agli altri. Perché ad esempio, siamo fermi da quasi otto anni su come ridurre il numero dei contratti di lavoro? Perché non possiamo – da subito – decidere di formare una commissione di studio con il compito di istruirne i temi e offrire almeno il quadro delle soluzioni possibili? Naturalmente, come sappiamo, vi sono differenze anche tra le posizioni di Cgil, Cisl e Uil. Quelle che non hanno consentito di arrivare a una intesa nelle commissioni unitarie di lavoro. La prima riguarda il nodo della produttività e sottintende una parziale idea non omogenea del rapporto e del peso reciproco tra i due livelli di contrattazione. La seconda concerne la difficoltà ad arrivare ad una intesa tra le confederazioni sulle modalità di validazione e di mandato per piattaforme e accordi. La terza: il diverso giudizio sull’esigenza – che la Cgil sollecita– di estendere con legge ai settori privati una verifica effettiva della rappresentatività di ognuno, sul modello di quanto previsto per i pubblici, prevedendo inoltre criteri e procedure per il voto dei lavoratori sugli accordi sottoscritti. Come sempre accade in presenza di opinioni diverse, le distanze possono ridursi o allargarsi secondo le volontà e la disponibilità dei rispettivi punti di vista. Prese in sé – anche dopo il lavoro comune fatto – le posizioni non appaiono facilmente mediabili. Diverso è se si valutano i comportamenti concreti, gli accordi trovati dai sindacati pubblici, la conclusione del contratto dei metalmeccanici, che presenta anche qualche soluzione innovativa, il referendum fatto tra i lavoratori del settore, le richieste avanzate unitariamente in tutti i rinnovi. E anche sulla legge tutto potrebbe essere più facile, se prima si raggiungesse un accordo sindacale e si pensasse assieme al fatto che una legge era stata unitariamente richiesta da Cgil, Cisl e Uil al Parlamento, nella passata legislatura. Comunque sia, è questo insieme di nodi che non ha reso possibile – fino ad oggi – una mediazione unitaria e quindi la possibilità di aprire un confronto con le controparti. Tutte le controparti pubbliche e private, che hanno firmato l’accordo del 23 luglio. E non solo con una di esse. Qui davvero non vedo scorciatoie. Trattare senza merito condiviso tra Cgil, Cisl e Uil non ha senso. Espone il sindacato a rischi di accordi separati o al fallimento del confronto, sottrae ai lavoratori la possibilità di condividere una proposta di riforma e di discutere e approvarla o meno. Bisogna avere pazienza e riprendere il filo della ricerca unitaria. Contare sull’unità che si è realizzata in molte categorie. Fare tesoro di come siamo arrivati alla firma dell’intesa, sia pure sperimentale, nel settore degli artigiani, non per copiarne le soluzioni – che già erano diverse prima – ma per la misura che ognuno ha avuto nel gestire i punti di vista diversi nel sindacato e fra le controparti. Sarebbe anche importante che tutti riflettessimo sulla forza che tutti abbiamo ricevuto dalla grande partecipazione al voto per le RSU nei settori pubblici e nella scuola; la risposta più alta ai tentativi di delegittimazione esercitata da settori del governo nei confronti della rappresentanza sindacale e della sua funzione di contrattazione collettiva. E di come la contrattazione territoriale e sociale, esercitata in molte città e territori, possa dare e ricercare nuove risposte alle politiche di sviluppo e a quelle di coesione. Qui davvero può ripartire una sperimentazione dal basso, in grado di dare significato e risultati alla partecipazione democratica, e forse aprire un nuovo terreno di presenza e di accordi. Tutto questo noi lo vogliamo fare con l’intesa di tutti. Nei confronti degli amici e dei compagni di Cisl e Uil abbiamo avanzato nelle tesi una prospettiva di rafforzamento dell’identità comune e del lavoro unitario. Tutti assieme rappresentiamo il più grande sindacato europeo e una grande forza di rappresentanza sociale. Quando la esercitiamo per davvero, la nostra proposta conta, pesa, orienta. Abbiamo superato ancora una volta nel corso di questi quattro anni una fase difficile, e come tante altre volte siamo stati capaci di ripartire con il lavoro e l’impegno comuni. Siamo, ognuno per sé, fieri della nostra identità e convinti che il sindacato italiano è forte e cresce, perché fatto di tante culture, sensibilità ed esperienze. Perché davvero sindacato generale, confederale, non corporativo e non unionista. Tocca a ognuno di noi provare a fare un passo in avanti. La condizione del paese richiede un sindacato unito, autonomo, plurale, democratico. Noi siamo pronti a lavorare in questa prospettiva. E rivolgeremo sempre attenzione e rispetto a quelle organizzazioni sindacali - tra cui l’Ugl – che hanno lealmente lavorato insieme a Cgil, Cisl e Uil. A Savino Pezzotta voglio dire che anche nei momenti più duri di divisione e polemica, quelli di tre anni fa, non è mai venuto meno il rispetto della Cgil e la considerazione per l’autonomia delle sue scelte e di quelle della sua confederazione. E lo stesso vale per Luigi Angeletti, e per tutte le compagne ed i compagni della Uil. La CgilRiprogettare il paese esige che la Cgil abbia la forza di guardare dentro di sé e riprogettare se stessa, la propria organizzazione, i propri insediamenti, le proprie modalità di lavoro. In questi anni il peso e la forza dell’iniziativa esterna della Cgil hanno messo in secondo piano le verifiche necessarie della vita interna e le modifiche da apportare. Molto è stato fatto, in ogni caso. Oltre 200.000 iscritti in più in quattro anni, 260.000 in cinque anni, per la maggior parte lavoratori attivi, tanti immigrati divenuti delegati e dirigenti delle nostre strutture. Abbiamo lavorato per rendere più forte lo SPI, l’Auser e le reti territoriali degli anziani. Nidil è cresciuta e in molte categorie il nuovo tesseramento ha riguardato giovani e donne. Abbiamo potenziato l’offerta dei nostri servizi e del patronato; fatto crescere una formazione di qualità e di eccellenza. L’Ires, l’Isf, la Fondazione Di Vittorio, ognuna nel suo campo, sono divenuti riferimenti affidabili nel settore della ricerca, dello studio, delle politiche formative, delle analisi economiche, sociali, giuridiche e storiche. Con questo Congresso abbiamo dato vita a due nuove federazioni di categoria: quella dei lavoratori della conoscenza, la FLC, nata dall’incontro fra il sindacato della scuola, quello della ricerca e dell’università, e soprattutto frutto delle grandi mobilitazioni di questi anni. E la FILCEM, il sindacato dei lavoratori dell’energia e della chimica, che ha preso il posto di due vere istituzioni della nostra storia sindacale, la Filcea e la Fnle. Abbiamo infine dimostrato una grande e affidabile capacità organizzativa e di mobilitazione e raggiunto risultati oltre le attese, in tutti i rinnovi delle rappresentanze sindacali. Proprio questa forza ci deve mettere in condizione di affrontare meglio i problemi che avvertiamo. Siamo ancora una struttura organizzativa mutuata dalla storia del fordismo, e pur confermando le due matrici storiche delle strutture di categoria e di quelle orizzontali, dobbiamo realizzare forme di lavoro a rete e sinergie, capaci di rappresentare quel mondo del lavoro che non incontriamo, affermando realmente una centralità dell’azione e del progetto nel territorio. Non va cambiata la forma dello SPI, che rappresenta una originale e fortunata forma di rappresentanza generale dei pensionati e degli anziani. Ma va aperta una discussione su come lo SPI possa aiutare e sostenere con più efficacia il lavoro delle strutture, nella consapevolezza affermata con forza da Betty Leone – nella sua relazione al congresso - che il patto generazionale non può riguardare solo la società, ma anche noi e la nostra vita interna. Dobbiamo decidere qui, al Congresso, la prospettiva di integrazione tra la Filtea, un altro grande e storico sindacato, oggi in posizione di frontiera e la FILCEM. Con lealtà dobbiamo ammettere che la presenza dei giovani alla vita e alla direzione della Cgil è ancora troppo inadeguata, che per i migranti per diventare un vero sindacato multietnico dobbiamo fare di più e che la definizione della Cgil come sindacato di uomini e di donne vale per gli iscritti e un po’ meno per i quadri, gli apparati, i gruppi dirigenti. Su tali problemi, che poi richiamano sempre al fondo una verifica della destinazione e distribuzione delle risorse e delle nuove priorità che dobbiamo assumere solidalmente, è giusto prevedere una conferenza organizzativa apposita, che questa volta non possiamo più rimandare e che va preparata con rigore, partecipazione e chiarezza di obiettivi. Questo nostro XV congresso è partito con una impostazione e una scelta di unità. Non si sono più misurate nel rapporto con gli iscritti mozioni globalmente alternative, come era accaduto negli ultimi tre congressi. Questa è e resta una scelta di grande forza e maturità. Voglio dare atto a tutte e a tutti di avere concorso a questo obiettivo, soprattutto a chi ha rinunciato in prospettiva a posizioni di vantaggio o di convenienza. Il voto unanime sul preambolo del documento congressuale conferma che questa è l’opinione condivisa dai nostri lavoratori e dai nostri pensionati. La discussione è stata in ogni caso una discussione vera, come è nel costume della Cgil, aiutata dall’esistenza di tesi alternative sulle politiche contrattuali e sulla democrazia. Tutti i congressi svolti – e dico tutti – si sono chiusi con documenti unitari. Solo in tre congressi – di grandi e importanti strutture – vi è stata una differenziazione nel voto delle liste per l’elezione dei comitati direttivi. In tutti i congressi a cui ho partecipato personalmente ho avvertito fortissimo il sentimento unitario: ed è in ragione di questo che penso che vada fatto ogni sforzo perché anche il Congresso nazionale possa chiudersi nel segno dell’unità. Non per obbligo o convenienza, ma per rispetto del mandato che abbiamo chiesto e del modo in cui si sono espressi i nostri iscritti. E’ vero che il passaggio da una modalità congressuale tradizionale a quella di oggi ha aperto una discussione al nostro interno sul peso da dare ai voti raccolti dalle singole tesi alternative e su che cosa questo pluralismo nel voto comporti nella definizione dei pluralismi interni. Ma anche questa discussione – e i diversi punti di vista che sono in campo, sui quali continueremo a ragionare – non devono modificare, secondo il buon senso, la conclusione logica di tutto l’iter congressuale. Resta inteso che il nostro congresso è libero e sovrano e deciderà in piena autonomia e responsabilità. L’anno del centenario Care compagne e cari compagni, il 1 ottobre a Milano celebreremo i cento anni dalla nascita della Confederazione Generale del Lavoro. Si tratta per noi tutti di una ricorrenza importante perché ricorda l’ingresso nella storia del paese non del sindacato, che era già nato con le prime Camere del Lavoro e le più antiche federazioni di categoria (metalmeccanici, lavoratori della terra, tessili, grafici, panettieri, vetrai, edili), ma di quella particolare forma unitaria e generale di rappresentanza del lavoro. Quella che solo due anni prima era stata anticipata e richiesta dal primo sciopero generale. Il centenario è quindi l’occasione per riscrivere questa storia – che non è solo la nostra ma appartiene a tutti - per tirare fuori dagli archivi la memoria di persone e generazioni che con il loro impegno e la loro scelta di vita hanno contribuito al processo di emancipazione del lavoro, hanno dato senso a parole come diritti e dignità, hanno liberato il lavoro dalla schiavitù, dall’oppressione, hanno fatto crescere partecipazione e democrazia, coscienza di sé e delle proprie ragioni. Ci hanno fatti diventare tutti un po’ più diversi, e un po’ più uguali, un po’ più meticci.In tanti convegni, in tanti libri, abbiamo ricostruito le parti più significative di questa storia, le conquiste sindacali più importanti, le lotte più epiche, la difesa operata nei confronti di un fascismo che chiudeva Camere del Lavoro e colpiva persone inermi. Abbiamo rievocato gli scioperi del 1943 – 1945, unici in Europa, in un paese in guerra e sotto l’occupazione straniera, che portarono alla deportazione di 12.000 lavoratori, e che sono all’origine della parte prima e del primo articolo della nostra Costituzione. Abbiamo riletto la vita e l’esperienza delle personalità più importanti di questa storia, da quelle più lontane nel tempo, tra le quali voglio ricordare la figura di Argentina Altobelli, segretaria dei lavoratori della terra, in un periodo in cui alle donne non era consentito il diritto di voto, a quelle più vicine, tra le quali un posto a sé merita la figura di Giuseppe Di Vittorio, capace di unire il suo impegno sindacale negli anni venti tra i suoi braccianti di Cerignola con quello che lo porta ad essere con Grandi e Buozzi autore del Patto di Roma, della rinascita della Cgil unitaria del dopoguerra, e poi dopo la divisione, primo segretario della Cgil, nel pieno degli anni della guerra fredda. Tante storie locali, municipali, di città e di paese, più antiche e più recenti, si sono aggiunte in una gara per scoprire radici lontane e suggestioni sempre uguali: le storie di miniera (ad agosto ricorre il cinquantesimo anniversario dei morti di Marcinelle) e quelle delle risaie, gli opifici e le manifatture, le prime grandi fabbriche, l’epopea dei nostri martiri siciliani, prima e dopo Portella della Ginestra, le emigrazioni degli anni cinquanta e sessanta, il lavoro fordista, la stagione terribile delle stragi e del terrorismo. Quel terrorismo che poco dopo il nostro ultimo Congresso uccise il professor Marco Biagi. Tutto questo per arrivare ad una conclusione semplice e vera: questa storia non è la storia di una parte del paese, o una storia minore, ma costituisce – non da sola ovviamente – la nostra identità storica e la nostra comune democrazia. E’ la radice delle nostre libertà. Per questo, e lo dico rivolto alle forze politiche tutte, non bisogna rimuovere il valore del lavoro, la sua dignità, la sua centralità dalla vita pubblica e da quella politica del paese. E questo invito vale in particolare per le forze che sono legate al lavoro e nel lavoro affondano radici storiche e identità. Anche per questo valore, abbiamo tenuto in vita in questi anni una luce. Quella di cui parlava un compagno che ci ha lasciato, dopo avere con noi condiviso lotte, utopie, domande. Tom Benetollo parlava del lampadiere, di colui che procedeva nel buio ma rischiarava la strada a chi veniva dietro, per indicare il cammino, per dire da che parte si stava. Quella stessa luce – che in un giorno triste della nostra storia recente – abbiamo visto negli occhi e nei cuori delle ragazze e dei ragazzi di Locri. A conclusione del documento congressuale, abbiamo scritto che il progetto per il paese si rivolge ai giovani, al loro futuro, alle loro legittime attese. A maggior ragione, alle tante e ai tanti che non si rassegnano, come i ragazzi di Locri, è dedicato questo nostro XV Congresso.

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